Ferrante e il processo contro i baroni: le deposizioni degli imputati conservate all’Archivio di Stato di Mantova
di Lina Marzotti
Nel Fondo Gonzaga dell'Archivio di Stato di Mantova si trova una copia manoscritta del processo informativo cui furono sottoposti nel 1487 i baroni che congiurarono contro Ferdinando d'Aragona re di Napoli, alleandosi con papa Innocenzo VIII. I maggiori feudatari del regno e detentori delle principali cariche politiche consideravano una minaccia per la loro autorità ed autonomia la politica di Ferrante che mirava ad allargare i gruppi dirigenti dalla nobiltà di spada alla nobiltà di toga, cooptando in questo modo nuove energie culturali e commerciali.
I ribelli che non riuscirono a mettersi in salvo – Carlo Sanseverino conte di Mileto, Geronimo Sanseverino principe di Bisignano, Barnaba Sanseverino conte di Lauria, Pirro del Balzo principe di Altamura, Angliberto dal Balzo duca di Nardò, ed i loro più stretti collaboratori – vennero catturati tra il maggio ed il giugno del 1487, rinchiusi nelle prigioni del Castel Novo e sottoposti ad un rigido interrogatorio. Le loro deposizioni tuttavia non servirono mai a giudicare gli imputati ed i reati da loro commessi, ma a giustificare l'operato del re di Napoli di fronte ai governi europei, poiché l'arresto dei baroni venne utilizzato in modo strumentale dal papa per ridurre Ferrante – che, come suo padre Alfonso, non voleva pagare il censo dovuto alla Chiesa – alla giusta obbedienza: Innocenzo VIII tentava ancora di far valere i propri diritti feudali sul regno di Napoli.
Ferrante avviò una programmatica opera di propaganda a giustificazione del suo operato. Consegnò agli ambasciatori presenti alla sua corte copia delle singole deposizioni già nel luglio del 1487 ed in agosto inviò copie dell'intero processo informativo al papa ed agli altri regnanti italiani, come si evince dalla corrispondenza del Bendedei col duca di Ferrara (G. Paladino, ASPN, 1923), da quella del Castiglione con il duca di Milano (in parte inedita ed oggetto di una mia analisi) e dalla corrispondenza del re Ferdinando con Giovanni Albino, suo ambasciatore presso la corte pontificia (Giovanni Albino, Lettere, istruzioni ed altre memorie dei re Aragonesi, a cura di Ottavio Albino, Gravier, Napoli, 1769). Gli atti di questo processo informativo, come quelli del processo intentato contro i segretari del re, Antonello Petrucci e Francesco Coppola, vennero stampati da Francesco del Tuppo nel 1487 e nel 1488, per ordine di Ferrante: entrambe le edizioni divennero subito rarissime, tanto che nel XIX secolo ne erano note solo due copie, che furono ripubblicate da Stanislao D'Aloe nel 1859.
Nonostante questa importante opera di riproduzione e questa larghissima diffusione, il documento proveniente dall'Archivio di Mantova (Archivio Gonzaga – Dipartimento affari esteri: Napoli e Sicilia), oggetto della mia tesi di laurea, a tutt'oggi è l'unica copia manoscritta conosciuta del processo del 1487. Si tratta di un documento inedito già segnalato da Ernesto Pontieri in una breve nota in un saggio su Camillo Porzio (ASPN, 1957-1958), dove si dice pure di un altro manoscritto, analogo a quello mantovano, conservato nella Biblioteca nazionale di Madrid.
Il manoscritto mantovano, molto ben conservato, è composto da 109 carte numerate sul recto, cui vanno aggiunti due ulteriori fogli non numerati: il primo, scritto sul recto e sul verso, contiene la lettera testimoniale del maestro giustiziario del regno, Antonio d'Aragona Piccolomini, scritta dal mastro d'atti Giovanni Paolo Cetta e sottoscritta anche da Nicola Martino, Bardo di Falco e Angelo Starano, notai della Magna curia della vicaria di Napoli; l'ultimo foglio contiene la nota autografa del mastro d'atti Angelo Cipha che certifica di aver verificato la copia sull'originale. La realizzazione della copia avvenne parallelamente alla conduzione degli interrogatori o subito dopo, poiché la lettera testimoniale, scritta a Napoli nella Magna curia della vicaria, è datata 3 agosto 1487. In calce alla lettera testimoniale si trova il sigillo aderente in cera con i tipi araldici di Ferdinando (circolare inquartato: al 1° ed al 3° coi tipi d'Aragona, al 2° e al 4° coi tipi di Napoli e Gerusalemme); in calce alla nota del mastrodatti Cipha si trova invece un signum tabellionis rappresentante un gonfalone inquartato in decusse, sormontato da una piccola croce. La lingua usata dai funzionari della curia è il latino, quella degli imputati il volgare napoletano del quattrocento.
Esiste una tradizione storiografica consolidata che, a partire da Machiavelli e Guicciardini, ha rintracciato le origini dello stato moderno nell'Italia dei comuni e delle signorie, dove per la prima volta si sarebbe assistito ad un tipo di organizzazione pratica della vita pubblica, che sarebbe servito di base agli stati rinascimentali, senza fornire però degli esempi istituzionali validi anche per gli stati monarchici. Nello scorso secolo questa tesi, abbracciata da illustri studiosi, come il Burckhardt, venne poi affrontata criticamente e superata da studiosi come Näf, Hartung, Mousnier e Gilmore, che individuarono nella Francia e nella Spagna del XV secolo i modelli che meglio di altri mostrano le fasi della transizione da uno stato feudale ad uno stato monarchico di tipo moderno, accentratore e assolutista, fenomeno che in tempi diversi ha interessato tutta la società europea e costituisce quindi uno degli elementi chiave per cogliere l'unitarietà di una storia di cui l'Europa Unita ha certamente bisogno per ritrovare e ricostruire una memoria comune.
La Spagna, in particolare, non essendo stata soggetta ad una struttura politico-sociale di tipo feudale, si mostrò sin da subito come luogo d'incubazione ideale per nuove forme di governo "statale". Un altro esempio lo abbiamo, in epoca anteriore ed in circostanze diverse, nella Sicilia di Federico II, teatro di un'organizzazione politico-amministrativa di tipo centralizzato, in cui entravano in gioco, per le loro abilità tecniche e teorico-pratiche, membri di strati sociali normalmente esclusi dai luoghi del potere.
Il Regno di Napoli resta nell'ombra.
Teatro di contese feudali sin dalla sua formazione, oggetto di scambio sin dagli albori dell'età moderna (nella sua periodizzazione più comune, 1492-1815), quando il trattato di Granada tra Luigi XII e Ferdinando d'Aragona ne sancì la spartizione tra la Francia e la Spagna, il Regno di Napoli non sembrerebbe poter essere preso in considerazione come luogo d'osservazione della difficile transizione dallo stato monarchico medievale allo stato moderno. Eppure, nel cinquantennio che segue la pace di Lodi, Napoli diviene la protagonista di un mutamento radicale della monarchia e dello stato, che la porterà a svolgere un ruolo attivo e preponderante sulla ribalta della scena politica internazionale del Rinascimento.
La politica di Ferdinando I di Napoli è il motore di questo cambiamento: una politica volta anzitutto all'accentramento politico e amministrativo attorno alla capitale ed al rinnovo della classe dirigente, i cui esponenti vengono scelti non più all'interno del baronaggio, ma tra le file della nobiltà napoletana, per la loro preparazione e le loro abilità tecniche e non in virtù di vincoli feudali; una politica che portò il papa ed i baroni – l'uno timoroso di un vicino potente che non accettasse di sottomettersi all'autorità temporale della Chiesa, gli altri attaccati ai propri privilegi feudali – ad un'opposizione tremenda. Una politica che mirava a trasformare Napoli da città feudale, possesso del re, a città capitale del Regno: privilegio questo che faceva nascere nei napoletani un sentimento nuovo, "proto-nazionale" (Maravall, 1971), un senso della comunità che li legava saldamente al re.
Ferrante, il re dei napoletani, dovette giocare una partita durissima al tavolo della diplomazia internazionale per riuscire ad ottenere il dovuto riconoscimento per sé e per il proprio regno. Costantemente minacciato dalle velleità di conquista della Francia all'esterno ed indebolito dall'infedeltà dei baroni all'interno, innovatore straordinario in un mondo che cercava con tutte le sue forze di restare ancorato ad un medioevo cavalleresco e feudale, osteggiato dal papa Innocenzo VIII che nel mantenimento di quel mondo e di quella cultura vedeva la garanzia del suo potere temporale e la sicurezza della compagine statale che di fatto stava originandosi attorno alla Chiesa, coinvolto nel difficile gioco di equilibri in cui rientravano anche Firenze e la Serenissima, Ferrante trovava l'appoggio incondizionato dei re Cattolici, che avevano ricercato – nel popolo unito dalla fedeltà allo stesso sovrano, nell'uniformità di lingua e di cultura e nella chiusura del territorio soggetto alla monarchia entro i propri confini naturali – le basi del moderno stato sorto in Spagna durante il loro regno.