Notizie storiche di Miglionico
di Teodoro Ricciardi
Nota: l'articolo seguente è tratto dal libro di Teodoro Ricciardi "Notizie storiche di MIGLIONICO" stampato nel 1867, e qui riprodotto fedelmente. A fine pagina è possibile consultare il volume originale in formato PDF.
Il Castello.
Si e detto di sopra, che de' tre castelli antichi non ci resta ormai che il solo alla punta sud, ed il quale occupa un luogo nella storia. Infatti questo castello, sul quale tanti secoli son già passati di sopra, sta tuttora saldo co' suoi torrioni nereggianti, e pare che voglia sfidare altri secoli ancora, con restarsi lungamente quale spauracchio o monumento di una moltiforme defunta tirannia; questo castello in somma nel 1485 servi di scena ad uno de' fatti più clamorosi della storia Napolitana, e diede materia a Camillo Porzio di darci quell'aureo libro Della Congiura de' Baroni del Regno di Napoli contro il Re Ferdinando I d'Aragona.
Il suo fabbricato, costrutto a parallelogrammo, se non che il lato d'innanzi è un poco più corto di quello di dietro, sta sito alla punta della crociera verso il sud, su di un terreno petroso , cinto nella base da grosse mura con terrapieni, e fìancheggiato da sette torrioni, due de' quali, negli angoli di dietro, sono formati a doppie torri, più quattro bastioni a scarpa , con le loro sommità coronate di merli. Esaminandosi bene una tal mole, vedesi che il pian terreno, o primo piano, è stato fondato in epoca molto anteriore al piano di sopra. Infatti, oltre della costruttura, e dello stato stesso del fabbricato del primo, il quale mostra già più antichità, la di loro diversità vedesi chiaramente nella merlatura antica del pian terreno, i cui vani, nel costruirsi il piano superiore, restarono già riempiuti di fabbrica. Quando poi questa aggiunta siasi fatta è ignoto; ma per certo doveva essersi già eretta molto tempo prima del 1485, per potersi scegliere a luogo di riunione da tanti signori con intervento dello stesso Re e Reale famiglia. Quindi può credersi che nel 1110 l'antico fabbricato, forse già male ridotto, ed il quale solo formava l'antico castello, dove è esser stato ristaurato dal Conte di Andria Alessandro, il quale per una maggior sicurezza e comodità potè aggiungerci il piano superiore; onde per tale trasformazione ben potè dire Romualdo Salernitano: Alexander Comes fecit aedificare Miliolongum castellum. Perché poi il Salernitano l'abbia detto Miliolongum invece di Milonianum, o Milioniacum, nol sappiamo. Il suo ingresso adunque preceduto da un lungo e largo spianato, oggi guarda il Nord-Est; ma l'antica sua Porta era però a fianco della presente, cioè guardava il Sud. Di questa porta, già posta su di un masso di fabbricato ch’estendesi d'innanzi come un davanzale, e sul quale esser doveva un'antiporta, veggonsi ancora in buono stato i pilastrini con l'architrave, di pietre intagliate. Accanto del detto architrave ci stanno come due Tigri anco di viva pietra, e nel sommo vedesi lo stemma baronale de' Bisignani, formato da uno scudo inclinato con una fascia a traverso, sopra del quale è posto un cimiero, con morione abbassato, dalla cui sommità escono due grandi corna bovine (in segno di fortezza o vittorie riportate ne' tornei) ritorte nelle punte verso il di fuori, le quali nel mezzo acchiudono poi un monte che finisce in cinque altri monticelli. Sul detto architrave vedevansi inoltre, sino a non molti anni addietro, gli antichi merli con le petriere sporgenti, ed uno stretto loggiato per accorrere, in giro, a difesa della porta. Ormai merli e petriere sono scomparsi pel nuovo loggiato costruito, ed ora mi dicono che va pure ad essere distrutta la intiera porta per nuova costruzione, che sta facendo il proprietario. Per questa antica porta adunque entratosi nell'atrio interno, nel bel mezzo di questo vedesi l'antico cisternone, e la lunga gradinata, a capo della quale, l'angusta porta del piano superiore, di ordine Teutonico a sesto acuto. Di ordine Teutonico son pure la porta e le finestre lunghe e strette della Cappella, posta al di sotto, della gradinata , le quali, da circa due anni, si sono pur guastate in parte, nel trasformarsi che si è fatto detta Cappella in un Trappeto. È superfluo poi parlare dell'altra nuova gradinata, e loggiato attorno dell'atrio, perché di epoca posteriore assai; non che de'suoi sotterranei, precisamente di una Cava scovertasi negli scavi già fatti, e nuovamente riempiuta. nello scavare la quale si ritrassero de'grossi e larghi pezzi di un lastricato indurito come pietra; siccome ozioso sarebbe il farsi menzione anche de'tanti pregiudizi popolari, che correvano prima che un tale Castello si fosse abitato. Similmente tralasciando parlarsi di tutte le sue grandiose sale, ci fermeremo ad una soltanto, perché storica veramente. Entrandosi in somma nel piano superiore per la detta porta Teutonica, angusta pur troppo a tanta grandezza, dopo essersi percorsa lunga fila di sale e camere per due lati del Castello, arrivasi al lato settentrionale, nel cui angolo Nord-Ovest vedesi una saletta detta Sala della Stella, perché in bella architettura ha la sua volta formata a stella, i cui raggi acchiudono tante corrispondenti lunette (1). Nel mezzo del muro orientale della medesima vi e una porticina, alla quale, stando chiusa, appena si bada; ma nell'aprirsi, oh! quale sorpresa! Apresi innanzi un Salone di straordinaria grandezza, fatto a volta, il tutto di grossi pezzi di pietra tufacea , lungo palmi 104 , largo 30 e mezzo, ed alto 35. Quivi, per servirmi delle parole dell'Antonini « i Baroni » contro Re Ferdinando nella congiura si unirono; e la « Sala ove l'adunanza facevasi, una delle più grandi » che a miei giorni veduta io abbia, chiamasi fino adesso la Sala del mal' Consiglio. Quivi in somma nel 1485 si ordì quel Dramma, che finì con la tragica catastrofe de'Baroni quasi tutti, della stessa Dinastia Aragonese, e con la rovina e lo scompiglio del popolo soggetto! Ma di ciò fra poco, convenendoci prima di tutto accennare qualche cosa del Dominio Baronale esercitatosi in detto Castello, per aversi una piena intelligenza di quanto saremo per dire in prosieguo.
(1) Di queste località si parla qui come esse erano prima de' 16 dicembre 1857. Pel tremuoto allora avvenuto tutto si è ora cambiato!
Si perde nell'antichità la data certa del primo Barone di detto Castello. Pare, sulla testimonianza di Romualdo Salernitano, che verso la fine del secolo XI ed i principii del XII una tal signoria esercitarsi doveva dai Conti di Andria. Leggendo poi l'articolo Miglionico nel Dizionario Storico Geografico di Lorenzo Giustiniani, il nostro antico Manoscritto, e le memorie per la Università di Miglionico contro il Duca di Salandra, troviamo che nel 1415 si possedeva da un tale Sforza de Attendolis, e nel 1449 da Antonio Sanseverino. Di questo Antonio Sanseverino dovè esser figlio Luca, che nel 1465 ebbe il titolo di Principe di Bisignano e Conte di Tricarico, e il quale fu protettore dell' Ordine, che istituiva S. Francesco de Paoli. Da Luca e da una Ruffa nacque quel Girolamo Barone di Miglionico nella congiura de'Baroni, come diremo col Porzio. Nel 13 dicembre 1486 (1) dopo l'unione in Miglionico, Girolamo accordatosi col Re Ferrante, e con Alfonso Duca di Calabria, pose in potere di costui le Castella e Fortezze del suo Stato: onde poi tra le successive disposizioni, Girolamo fu catturato con altri nel 4 luglio, e nel 23 luglio 1487 il detto principe Girolamo era già stato spacciato co' suoi compagni, pochi giorni dopo la sua prigionia. Ciò fatto, il Re Ferrante nel 2 novembre 1487 concesse le Mastrodattie di Miglionico, Tricarico, Strongoli, Bisignano, e Corigliano, le quali erano già state del detto Principe Girolamo, in favore di Giovanni Nauclero, né conobbe più alcun freno al suo disegno di abbattere i Sanseverinschi.
(1) la bella Monografia di Bisignano del Canonico Pacano.
Dopo la morte di Girolamo intanto la moglie Mandella Gaetana, figlia di Onorato, e donna di grande animo, con quello stratagemma clic ci racconta il Porzio, a' 7 settembre sen fuggì in Francia coi suoi figli Berardino, Giacomo, Tommaso, e Onorato. Quindi ne avvennero quei grandi sconvolgimenti del Regno, la rovina degli Aragonesi, e la venuta de'Francesi in Italia. Intanto, dopo la cacciata de' detti Aragonesi da Napoli, essendo ritornato nel Regno Berardino, e riacquistato così i suoi possedimenti, visse sino al 1515. Questo Berardino Principe di Bisignano è quello che intervenne nell'istrumento di fondazione della Collegiata di Miglionico, e del quale si fa onorata menzione nella Bolla dell’Arcivescovo di Acerenza e Matera Andrea Matteo Palmieri del 23 luglio 1519 Bolla confirmatoria di quella già prima spedita dallo Zio dello stesso Arcivescovo Vincenzo Palmieri, con queste parole: intervenientibus unanimiter b. vi. Berardino Principe Bisiniani domino temporali, ac Universitate, et hominibus, nec non universo Clero dictae Terrae Milionici etc. Nel 1515 morto adunque il Principe Berardino, senza poter vedere istallata quella Collegiata, della quale egli aveva gettate già le fondamenta, gli successe il figlio Pietrantonio, il quale a'5 aprile poi del 1559 sen morì a Parigi, ove aveva fatto lunga dimora, bene accetto a Carlo V. Fu sotto il dominio di questo Pietrantonio, che nel 1511 restò finalmente istallata la Collegiata, e del quale è quella lettera de' 20 giugno 1517, scritta a' Canonici e Presbiteri di Miglionico, la quale già trovasi stampata tra i documenti in difesa di detta Collegiata contro la ora abolita Direzione Speciale della Cassa Ecclesiastica in Napoli. Da questo Pietrantonio e Giulia Orsini naque Felicia, la quale sposatasi ad Antonio Orsini, Duca di Gravina, fu madre di Ferrante Orsini, pur Duca di Gravina. Il detto Pietrantonio, dopo di Giulia Orsini, prese per moglie Erina Castriota Scanderbeg, da' quali nel 1° maggio 1541 nacque Niccolò Berardino II, ultimo della prima schiatta de' Principi di Bisignano. Intanto il detto Pietrantonio Sanseverino nel 1536, per Notar Francesco Cattone di Napoli, vendè, col paltò della ricompra, ad Antonio Pignatelli il suo dominio su di Miglionico, unito alla Difesa di Scanzano. Tale vendita dovè durare poco, perché nel 1543 troviamo il Bisignano già ritornato nel possesso; e di più, che dovè tornarlo a vendere col medesimo patto della ricompra, leggendosi: che per Notar Giosuè Giordano di Miglionico, sotto il dì 21 gennaio 1547, il medesimo Pietrantonio lo ricomprò per due. 10000 da Gennaro Caracciolo. Lo stesso Pietrantonio ancora nel 1551 lo tornò a vendere, sempre col patto de retrovendendo, a Francina Villancet per due. 16000, perché vivendosene a Parigi come si è detto, aveva forse bisogno sempre di molta moneta. Dal detto Notar Giordano sappiamo ancora che a' 4 giugno 1570 si possedeva nuovamente da' Principi di Bisignano. Dopo di costoro, cioè nel 1607, troviamo che ne fu padrone, perché già morto Berardino II, ultimo della prima schiatta de' Principi di Bisignano, Marcello Nigro, in qualità di erede. Troviamo inoltre, che ne fu signore pur anche il Duca Orsini di Gravina, giusta l'atto di possesso per Notar Filippo Planurra di Altamura, di che non può precisarsi la data certa, perché trovasi smarrito il documento, ma che però dovè avvenire per diritti di eredità dell'avola Felicìa Sanseverino, già sposata ad Antonio Orsini, come sopra si è detto. Finalmente Ippolito Revertera, de' Duchi di Salandra, nel 1624 ne acquistò la sola giurisdizione col Castello. Indi, man mano questi Duchi, abusando del loro potere, per ingrossare i loro possedimenti in Miglionico, trovarono modo onde muovere una ingiusta e dispendiosa lite al Comune, la quale non é giunta ancora al suo termine. Del resto questi signori Salandra non solo hanno veduto in mano loro infranto il giogo Baronale; ma di più, son già rimasti spogliali del Castello, e delle più considerevoli proprietà, in virtù di espropriazione forzala nel 1829, rimasti aggiudicati in favore del signor Stancarone Giuseppe, e delle altre piccole proprietà in favore del Monistero di S. Andrea Apostolo di Napoli; i quali ultimi possedimenti, pel Decreto Luogotenenziale de' 17 febbraio 1861, essendo stati incamerati al Demanio, ultimamente si sono già venduti a diversi particolari. Ormai adunque a' Revertera non rimane altro, che un abusivo diritto decimale su pochi terreni sativi; il quale diritto, o meglio avanzo di un potere abusivo , non potrà tardare ad essere annullato, e con esso vedersi scomparso all'intutto anco l'ultimo straccio di un secolare incubo Baronale! Ora ripigliando l'interrotto racconto della congiura, il cui fatto drammatico fa parie della Storia in grande, qui non faremo che riunire dal Porzio stesso i diversi luoghi che interessano alla intelligenza della medesima, e che o direttamente o indirettamente servono a spiegare quanto nel nostro Castello, anzi nella detta Sala del mal Consiglio, si disse e si fece, perché meglio di lui non si potrebbe da noi. Perdoni il lettore la lunghezza del racconto, perché alla fine non potrà pentirsi del tempo che impiegherà nel leggerlo. Correndo gli anni del Signore 1480, nel Regno di Napoli signoreggiava Ferdinando di Aragona il vecchio, e di quel nome il primo, uomo di animo stimato alquanto crudele, ma delle arti della pace e della guerra istruttissimo; ed avvegnaché per prudenza, felicità e grandezza delle cose operate fosse a' passati Re di Napoli non pur eguale, ma superiore, nondimeno aveva Alfonso, suo primogenito, Duca di Calabria, detto per soprannome il Guercio, che, se vivente, poco men che il tutto maneggiava; ed essendo giovane feroce, e di natura all’armi inclinato, di nìuna cosa mostrava di essere più vago, che di accender guerre in diverse parti dell’Italia per acquistar fama, gloria, e Stato. Infatti per due anni continui molestò la Toscana, ed i Fiorentini per liberarsene si rivolsero al Turco, e quindi Maometto Imperatore venne all'assedio di Otranto. Nel maggior fervore di una tal guerra col Turco, il Duca di Calabria riguardando la debolezza delle forze sue, poco bastevoli a tanto peso sostenere, si rammaricava col padre , rimproverandogli: che per soverchia bontà e mal governo i suoi ministri l'avevano ingannato, fatti sé ricchi, e lui povero; e che almeno allora che si trovava in tanto pericolo dello Stato, si dovesse servire de' furti loro, e come fraudatori punirli. I ministri che il Duca accennava erano Antonello Petrucci Segretario, e Francesco Coppola Conte di Sarno, che di povero grado si erano pareggiati, con l'autorità del Re, di rendite e di Stati a' maggiori Principi del Regno. Intanto subodoratesi dal Segretario e dal Conte le minaccie del Duca, si strinsero insieme, e cercarono il modo come assicurare loro stessi e far cadere le minaccie in danno dello stesso Duca. Su di ciò non mancò di offrirseli propizia occasione. Perché, dopo la liberazione di Otranto, per la morte di Maometto, il Duca avendo già mosso guerra alla Lombardia, il Segretario e il Conte sparsero voce, che il Duca nel ritorno avria spogliati degli Stati quei Baroni, che in quella guerra non l'avevano sovvenuto. Sparsasi già tal fama, da alcuni fu tenuta per verissima, e da altri abbracciata come ottima occasione di far novità, e di liberarsi dalle eccessive gravezze, di che il Duca e il Re per continue guerre li avevano caricati. Quindi capi del concertato movimento fecersi il Conio di Sarno, pel timore suddetto, e il Principe di Salerno, che pur' esso in molte cose tenevasi offeso dal Re, e quindi in diffidenza. Le di costoro speranze poi erano sorrette dalla moltitudine de' malcontenti, non che dalla mala volontà del nuovo Papa inverso il Re; perché Innocenzio VIII, essendo nato di padre Angioino, mal soffriva già il Re Aragonese. Dopo la divulgata fama adunque rimasti insospettiti gli altri Baroni, quasi tutti si ritirarono ne' loro Stati, e fra di loro incominciarono a chiedersi consiglio sul da farsi per la difesa. Da tali sospetti cercarono trar profitto i detti signori, e quindi il Principe di Salerno, ad esortazione del Conte di Sarno, operò in modo, che in quei dì si menasse dalla Padula a Melfì la figliuola del Conte di Capaccio, Sanseverino, la quale Giovanni Caracciolo, Duca di Melfl, aveva dato per donna a Trajano suo figliuolo. Fu questa una favorevole occasione per congregare in Melfl i malcontenti Baroni senza dare al Re sospetti, il numero de' quali si fa ascendere a ventotto, tra' quali primeggiano: Pirro del Balzo, gran Contestabile, Principe di Altamura, Conte di Montescaglioso, e Barone di Ginosa: Antonello Sanseverino Principe di Salerno ed Ammiraglio: Girolamo Sanseverino Camerlingo Principe di Bisignano, Barone di Miglionico etc. , ed altri. Con tutto ciò in quella unione non si conchiuse altro se non che il Principe di Bisignano ne andasse a Napoli, e dal Segretario, dal Conte di Sarno, e da Carinola, e Policastro figli del Segretario, e da altri intimi del Re, procurasse intendere la verità della fama, e che scoprisse di che animo sarebbero coloro, venendosi alle armi. Il Principe di Bisignano giunto a Napoli fece più di quello che potevasi sperare, con mandare anco Messer Bentivoglio in Roma a mettersi di accordo col Papa. Ma le molte pratiche con Roma e fra loro insospettirono il Re, che tosto incominciò a fortificarsi, e il Duca di Calabria, andato nell'Aquilano, si assicurò del Conte di Montorio con due suoi figliuoli e moglie, innocenti; pel di cui brutto fatto indignati gli Aquilani si diedero al Papa, e gli altri Baroni intimoriti veramente allora cercarono stringersi fra loro onde liberarsi dalla sovrastante ruina. Tutto ciò dal libro 1° del Porzio. Comincia poi il secondo con la seguente saviissima osservazione. Si è per lunga esperienza conosciuto, le guerre che commuovonsi con le forze di molti Capi, arrecare agli assaliti più spavento che danno. Conciosiachè la moltitudine, l'equalità, e la diversità de' fini, che gl’induce a guerreggiare, possono infra di loro agevolmente produrre differenze, come è confermato dalla presente guerra. Essendosi adunque sparsa voce della cattura di quei signori Montorio, avvenuta nel mese di giugno 1485, tutti gli altri Baroni temettero per loro, e quindi, con a capo il Principe di Salerno, cominciarono ad armarsi pubblicamente con pubblica ruina e confusione. In questo stato di cose tutti i sospettosi Baroni sottoscrissero le condizioni della lega col Papa, avanzata già dal Bentivoglio, e cominciarono a deliberare a chi di loro convenisse il carico di andare a Roma. In tale deliberazione cominciò la discordia a mettersi fra i congiurati, e naquero quindi delle scissure tra il Principe di Salerno e il Conte di Sarno, le quali procedettero poi tant'oltre, che Sarno ne restò cosi disgustato, da incominciare a pentirsi, ed a cercare i mezzi di pace col Re. Oh ! via: un Re offeso non mai perdona ! D'altronde il Re disperando della pace si apparecchiò alla guerra. I quali apparecchi con sollecitudine fatti, furono cagione che i Baroni ricorressero a ragionamenti di pace, maggiormente che i loro aiuti non erano pronti, e vie più discordavano fra di loro per le scissure, diventate già aperte inimicizie, tra il Principe di Salerno e il Conte di Sarno, capi del movimento: e perché il Re non avrebbe prestato più fede al Principe di Salerno, gli ferono chiedere la pace dal quel di Bisignano, il quale andato da Ferdinando, lo ritrovò in ciò assai più disposto di prima, non avendo egli già animo, cessati quei sospetti, di loro attenderla! E, per conchiuderla, il Re con ogni sollecitudine mandò alla terra di Miglionico, dove la maggior parte de' Baroni era convenuta, il medesimo Conte di Sarno, il Segretario, e Messer Giovanni Impoù Catalano suo Consigliere. Il Segretario e il Conte, per le cose narrate, non confidando più ne' Baroni, caldamente si sforzavano che seguisse la pace, e con essa si celassero i loro occulti indamenti; il Re poi, dimostrando con l'adoperargli di fidarsene, cercava ad un tratto, ed assicurarsi di loro, e insiememente porgli in sospetto agli altri congiurati. Il che gli succedette cosi felicemente, che giunti quelli a Miglionico, furono da’ Baroni ricevuti con ambigui volti, e Sarno più fiate della sua vita sospettò; imperciocché quei signori veggendolo, di lor compagno, del Re fatto partigiano, doppiamente l'infamavano. Ma per mostrarsi uomini pacati, celarono questa loro indignazione, e richiamarono anche il gran Siniscalco, il quale verso Roma camminando era giunto in Abruzzo. E venuti poi con essi loro a discutere gli articoli della pace, dopo l'essere rimasi di accordo in tutti, risolverono, per menar la pratica più in lungo: che volevano il Re venisse da se a promettergliene, e che altrimenti mai non sarebbero stati sicuri. Videsi allora quanto il Re desiò, pacificando i Baroni, di scemare 1'orgoglio di quel torrente, che rovina gli minacciava: perché, posposto ogni riguardo della dignità e della persona, a' 10 settembre 1485, postosi in via, s'andò confidentemente a cacciare nelle mani di costoro, seguito dalla moglie, e poco di poi dal Duca di Calabria ancora. I principali articoli, sopra i quali quei signori fingevano col Re voler pattuire, furono questi.
Che non volevano nelle sue richieste personalmente comparire, essendo che, con quel colore, molti di loro vi erano imprigionati e morti.
Che fosse loro permesso di tenere gente d'armi per difesa de' loro Stati.
Che potessero custodire le fortezze proprie coi loro soldati.
Che non dovesse il Re gravare i loro sudditi di altra che della ordinaria imposizione.
Che le sue genti d'arme non dovessero ne' loro Stati alloggiare, volendosi delle proprie servire.
Finalmente: che fosse loro lecito, senza torre licenza da lui, prendere soldo, e sotto qualunque Principe militare, purché le armi non si avessero a maneggiare contro del Regno.
Intanto, nel mentre il Re se ne viene a Miglionico, e da' Baroni si aspetta, il Gran Siniscalco, già rivenuto dal viaggio di Roma, per chiarirsi dell'animo del Conte di Sarno, lo chiamò in disparte e dissegli (1):
(1) Tanto i detti articoli della supposta pace, quanto il seguente discorso del Gran Siniscalco al Conte di Sarno, si trascrivono per interi, perché non solo sono belli ed istruttivi pel regolamento altrui, ma vie più perché son cose trattate in mezzo della nostra gran Sala del mal Consiglio.
Che la pace non doveva avere effetto, e che da essi si maneggiava, affinché Roberto, Loreno, e il Papa si potessero armare: ma perché egli vedeva, che questa pace si appetiva da lui fieramente, lo pregava a volergli manifestare, se intendeva con esso loro perseverare, o pure per occulta cagione disegnava ritirarsi e ne'servigi del Re continuare; perché di leggieri avverrebbe, che anch'egli, lasciati i Baroni, si disponesse a seguire l'opinione sua. Queste parole di tal confusione ingombrarono il Conte, che rimase come stupido e soprastette a rispondere; anzi apparve in lui dispiacer grande: conciosiachè tutte le sue speranze nella presente pace aveva collocate. Ma, poiché alquanto in quella perplessità fu dimorato, rispose: ch'egli rimaneva forte ingannato, avendo creduto che l'accordo seguisse per comune beneficio: ma che avendo ad esser guerra, egli non mancherebbe a quanto avea sottoscritto. Per lo cui coperto parlare, temè il Gran Siniscalco, che se egli nella impresa intervenisse, avverrebbe più per timor della soscrizione, che per volontà. Ed essendo intendente ed ingegnoso, né volendo con dubbio animo in compagno di tanta qualità fidarsi, deliberò sperimentare, se nell'animo del Conte prevalesse la generosità sua all'offesa di Salerno. Sicché, subitamente, lasciatolo, ne andò colà dove le scritte aveva riposte; e, quella del Conte presa, venutone da lui con fronte oltre l'usato lieta e confidente, e recatela in ambedue le mani in atto di stracciarla; signor Conte, disse: ho sempre giudicato, ove va la roba, e la vita, e l'onore, come è ciocché noi trattiamo, non doversi prendere gli uomini con la forza, ma dalla loro libera volontà; e parimenti ho persuaso a questi altri signori. E se pensai mai, alcun di noi in questa impresa spontaneamente venire, e senza rimordimento veruno, tenni per fermo sempre: che voi foste desso, che commosso dal pericolo delle cose vostre l'avete consigliata e ritrovata: ma veggendovi ora sospeso, e rispondermi di obblighi e di scritte, eccovele. Tolga Iddio, che il timor di pochi versi v' abbia a condurre ove l'amor della roba e della persona non vi conduce. E così dicendo, quel foglio lacerò. Di che, avvegnacchè il Conte sentisse nell' animo maraviglioso piacere, parendogli non poter essere più convinto del suo errore, come più volte il Principe di Salerno l'aveva minacciato, non di meno nè con gesti, nè con parole lo dimostrò. Anzi rispose: non si tenere sciolto per la rottura di quella carta; e che egli solamente ne aveva fatto menzione, per non obbligarsi ad altre condizioni, che ella non racchiudeva; ma che, quando pur fosse di altra maniera, ei si sentiva alla magnanimità del Gran Siniscalco cosi obbligato, che, quantunque il Principe di Salerno l'avesse offeso ed ingiuriato, non verrebbe mai meno all'impresa. Onde che, cresciuto l' ardire al Gran Siniscalco, procede a più caldi prieghi, e confortollo a far buon' animo, dimostrandogli: non istar bene per ogni leggiero sdegno le grand' imprese interrompere; come avverrebbe a quella, togliendosene lui, da tutti loro amato e riverito: e che grandemente si sarebbe ingannato se ei venisse in isperanza di vivere col Re e col Duca mai più sicuro: sicché fedelmente seguisse la fortuna di tutti, e 'l somigliante al Segretario persuadesse. Finse il Conte di Sarno per le costui parole ripigliare 1’impresa; il che venuto a notizia degli altri, l'incominciarono a carezzare; e’l Principe di Bisignano per cagione del parentado entrò seco in lungo ragionamento; al quale promise il Conte in ogni modo mandare il tutto in esecuzione : cosi altri leggiermente si crede quello che vuole ! Intanto il Re giunse a Miglionico; e da tutti quei che si trovarono, fu con ogni generazione di onore ricevuto. E venuto con esso loro agli accordi, quantunque dal Duca di Nardò per gratificarlo, per mezzo di Raimondo, maggiordomo di esso Duca, gli fosse aperto tutto il segreto di questo trattato, nondimeno non si rimase di concedere loro ciò che gli chiederono, cosi d'intorno alle gravezze, come agli obblighi personali; riprendendogli amorevolmente, che per ottenere quelle cose avessero voluto piuttosto torre le armi, che nella sua benignità confidare. Esortolli di più, a gire dal Principe di Salerno e fargli la pace accettare, promettendo loro : ch' Egli li terrebbe per figliuolo, e 'l Duca di Calabria per fratello. Ferono sembiante i Baroni di rimanere soddisfatti di ciò che al Re era piaciuto di concedere loro; e, per renderlo più sicuro, lo vollero accompagnare da Miglionico fin'a Terra di Lavoro, per di là poi poter andare unitamente da Salerno, e, come avevano promesso, fargli accettare le convenzioni. Da ultimo riferisce lo Storico nel libro 3°. La nuova di questo inaspettato accordo, cioè dell' accordo interceduto di poi tra lo spergiuro Aragonese e il Papa Innocenzio VIII, che da amico de' Baroni erasi già stretto con Ferdinando, come tutta Italia rallegrò da perpetuo corso di guerre travagliata, così rendè mesti il Sanseverino di Salerno, co' Baroni; l'uno perché non essendo compreso nell' accordo, di comandatore di un grande esercito, uomo privato diveniva; e gli altri, per vedersi abbandonati da ciascuno, rimaner preda al vincitore; avendo massimamente sperato, che Innocenzio dovesse nell'accordo avvantaggiare le loro condizioni di ciò che elle erano nel tempo si congiunsero seco, e di quel che a Miglionico il Re aveva lor congeduto. Come poi fini questo Dramma; qual fu la catastrofe de' Baroni; come il Principe di Salerno seppe fuggirsene in Francia, non che la vedova di Bisignano con i suoi quattro figliuoli; e quale la venuta de’ Francesi in Italia, e poi de' Spagnuoli, onde la povera Italia fu tutta sconvolta da lunghe guerre, son cose che ponno consultarsi presso tutti gli storici. Intanto da quanto col Porzio abbiamo riferito di essersi trattato nel nostro Castello può argomentarsi da chi non l'ha veduto, quale esser debba la sua grandezza per albergare un Re con la sua Reale famiglia, tanti signori, e seguito di ciascuno, e quindi comprendersi ancora quale in quel tempo esser doveva la sua importanza da tenere in sicura difesa cosi grandi congiurati. È perciò che la sala specialmente, nella quale tali cose si trattarono con tanti simulati ragionamenti, ha mantenuta sempre la sua celebrità, col distinto nome di Sala del mal Consiglio, quale con ammirazione, nel passato ! è stata sempre visitata (1).
(1) Quì si è parlato di questa Sala del mal Consiglio come era essa già prima del tremuoto de' 16 dicembre 1857. Dell' orrido tremuoto di quella notte fatale in quà non è più cosi : perché tra lo ripetute scosse cadde la sua pesante volta, e nel cadere sfondò pur anche la volta del pavimento. Ridotta perciò la Sala tutta una rovina, il proprietario d’allora signor Stancarone la sbarazzò alla meglio, e la copri con travi e graticci di canne. Ora però quella parte del Castello essendo passata ad altro proprietario, il signor Corleta, questo ha stimato meglio utilizzarla, con farne un appartamento di tante stanze scompartite; onde presentemente solo da’ muri esterni può argomentarsi quanto e quale esserne doveva la grandezza. Se fosse qui luogo, anche noi potremmo dire qualche cosa di quello che, benché pazienti, potemmo osservare in quella notte funesta; ma perché i medesimi fenomeni furono da altri, in altri luoghi, osservati, e minutamente esposti, ce ne astenghiamo. Notiamo soltanto, che dopo una .serie di placidi e temperati giorni del già morente autunno successe inopinata ed esiziale la notte del 16 dicembre 1857. Alle ore 5 1/4 d'Italia, quando la maggior parte degli abitanti, stanchi per il lavoro del giorno, trovavasi immersa nel sonno, dopo un cupo rombo aereo e sotterraneo, tremò da'suoi cardini la terra, e con una violenta scossa, con moto ondolatorio e sussultorio, balzò convulsa dal Sud al Nord, senza però cagionar danno per allora: ma dopo altri quattro o cinque minuti si ripeté la scossa più violentemente, sì per la durata che per l'intensità, per circa 25 minuti, con moti vorticosi e di sbalzo, e quindi, o adeguò al suolo paesi interi come Montemurro, Saponara , Viggiano, Marsico Nuovo, e Vecchio, Paterno, Tramutola, Castelsaraceno ecc. nella Basilicata, con Polla, Pertosa ed altri in quella di Salerno, con la morte in Basilicata di 9750, e feriti 4359, e 1213 morti nel Salernitano, e 547 feriti, o cagionò de' danni parziali soltanto, senza morti e feriti, come in Miglionico ed altri paesi circonvicini. Rifugge l'animo dal narrare gli orrori, lo sbalordimento, le grida e le angoscie della misera gente fuggita tutta all’aperto o perfettamente ignuda o seminuda ! Le scosse non cessarono per tutta la notte e il giorno seguente, che sorse per rischiarare di sua torbida luce gli effetti di quella scena di orrore ! Dopo di che, per circa un mese, la terra rimase trepidante sotto i piedi, e la gente malsicura in paese, o cercò ricovero per gli abituri della campagna, o, ne' luoghi spaziosi, si costruì delle baracche di tavole.